Ceccanti: è la Poliarchia il vero antidoto al virus statalista
Di Stefano Ceccanti, sul Riformista del 20 luglio 2010
Tremonti ha citato la novità del termine Poliarchia nella “Caritas in Veritate”, anche se lo ha fatto per giustificare la debolezza del Governo in un quadro globalizzato. La questione è seria. Il termine, sorto a inizio 1600, sviluppato soprattutto dal politologo Dahl per tenere conto delle differenze rispetto alle città-stato greche in cui era stata coniata la categoria di democrazia, nonché dei legami contraddittori ma indissolubili tra democrazia e capitalismo, sta a significare che il potere sociale è distribuito tra più persone e più realtà, opponendosi a monarchia, oligarchia e aristocrazia.
E’ la realtà delle democrazie contemporanee nella quale coesistono – una come condizione dell’altra – separazione sociale e separazione costituzionale dei poteri. Poliarchia significa scelta netta per il pluralismo . La categoria di democrazia è più ambigua per due motivi. Anzitutto perché si basa anche su visioni monarchiche (come quella di Rousseau), che vengono riattualizzate nei richiami a forme forti di “primato della politica”, di “nuova statualità” (ultimo il giurista cattolico, ma, non casualmente, socialdemocratico Bockenforde, in Italia ciò si alimenta a sinistra nell’eredità dossettiana) che alla fine riassumono il pluralismo dentro le istituzioni statali. In secondo luogo perché democrazia, in connessione a quelle visioni, presenta elementi indistinti di “dover essere” che sfociano nella centralità dello Stato e nel valutare le differenze sociali e territoriali come disvalore richiedendo politiche uniformizzanti.
Con la Poliarchia si scende sui sistemi politici reali e si fa un’opzione chiara per una visione di valorizzazione dinamica del pluralismo, riconoscendo che i sistemi sociali sono ordinati da più principi non unificabili. La politica è solo uno dei sottosistemi ed è regolata dal diritto, prodotto da più fonti, non solo dalla legge. Il pluralismo, l’esistenza di organizzazioni relativamente autonome, è requisito necessario della Poliarchia, ma non c’è determinismo: ci può essere pluralismo senza Poliarchia, con un sistema statico, senza competizione, in cui le organizzazioni finiscono per nuocere all’uguaglianza di chances e ad alterare l’agenda pubblica. Il pluralismo rafforza l’autonomia di tutti i sottosistemi, che non sarebbe concepibile senza organizzazioni che lo strutturano, ma se non si inserisce in un quadro di competizione, in cui è decisivo il ruolo della regolamentazione, esso viene semplicemente ratificato dalla politica, rafforzando gli insiders a danno degli outsiders.
Ad esempio è positivo che esistano associazioni professionali a cui possono essere riconosciute funzioni pubbliche, ma le regole interne e quelle poste dalle istituzioni debbono garantire accesso e apertura. Concretamente, nell’attuale periodo storico, nelle democrazie consolidate, sostenere una visione poliarchica significa: a) valorizzare il principio di responsabilità in modi diversi a seconda del concreto sottosistema di riferimento: in quello politico-istituzionale la responsabilità elettorale di rappresentanti e governanti e il principio di sussidiarietà verticale, in modo che l’unità dei sistemi non significhi uniformità, soprattutto degli strumenti adottati; b) sostenere una visione aperta e dinamica del bene comune, non definibile in modo sostanzialistico una volta per tutte, ma rimesso al contributo di ogni sfera sociale, politica, religiosa, economica; c) nei rapporti tra i diversi sottosistemi la visione poliarchica sottolinea il valore del principio di sussidiarietà orizzontale e l’intervento sussidiario delle istituzioni soprattutto in termini di regolazione più che di gestione diretta; l’eventuale gestione diretta deve essere per quanto possibile in concorrenza e non in regime di monopolio; d) diffidare, quindi, di strategie di regolazione del mercato e dell’economia affidate a un indistinto “primato della politica”; e) nei rapporti tra sottosistema politico e religioso la visione poliarchica sottolinea al tempo stesso l’incompetenza religiosa dei poteri politici, fatte salve le esigenze dell’ordine pubblico , e l’apertura alle diverse istanze delle persone e delle comunità in termini di scelte personali e di contributo al dibattito pubblico; f) evitare derive centralistiche, statalistiche, “monarchiche” in tutti i sensi; g) proprio perché la politica è riconosciuta solo come uno dei sottosistemi, regolato da un diritto prodotto da più fonti, le istituzioni di governo devono essere dotate in quell’ambito costitutivamente limitato di capacità decidenti su cui poi si deve esercitare la responsabilità rimessa soprattutto al corpo elettorale, altrimenti è inevitabile una deriva oligarchica.
Insomma ha senso parlare di Poliarchia se si capisce che essa, a destra come a sinistra, è un vaccino chiaro contro le varie tendenze statalistiche, vecchie e nuove.