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Morando: “La manovra? Vedremo. Dura tagliare i 17 miliardi previsti da Letta”

Intervista a Enrico Morando su La Stampa del 30/6/2014 – di Alessandro Barbera

logo_stampa_Morando, dal vertice europeo è emersa la disponibilità di Bruxelles a un «miglior uso» della flessibilità di bilancio. Non è poco?

«La cosa notata meno è la più importante: il nuovo capo della Commissione europea era il candidato del partito che ha ottenuto più voti in Europa. Chi auspicava questo esito due anni fa veniva preso per pazzo utopista».

Torniamo alla cosa che si è notata di più?

«Non penso che l’accordo raggiunto sia poca cosa. È vero che nei Trattati ci sono già elementi di flessibilità. Ed è vero che noi abbiamo già utilizzato i margini di flessibilità concessa. Ma per usarla pienamente il documento Van Rompuy dice che dobbiamo andare avanti con le riforme».

«L’obiettivo che si è dato Renzi è triennale, e questo ri- spetto agli ultimi due governi di emergenza ci da maggiore credibilità. Ora sta a noi procedere con le riforme: del fisco, della pubblica amministrazione, della giustizia».

Per il momento l’Europa non ci concede margini sul raggiungimento ‘del «pareggio strutturale». Questo signífica che in autunno, sommando la conferma del bonus Irpef, le spese indifferibili e ciò che serve a raggiungere quel pareggio ci vogliono 25 miliardi di euro. O no?

«Uscirei dalla logica delle manovre. Sappiamo di avere degli impegni per il prossimo triennio. Molti li abbiamo fissati nel Documento di economia e finanza, altri con il decreto Irpef-Irap. Il governo Letta ha fissato un obiettivo molto ambizioso di revisione della spesa: l’anno prossimo sono 17 miliardi. Inoltre dobbiamo quantificare il maggior gettito permanente da lotta all’evasione».

«Dell’ambizione di quegli obiettivi si è riflettuto poco. Ma siamo impegnati a fondo. Ricordo che nelle norme c’è la riduzione delle stazioni appaltanti da 32mila a 35».

Il vero buco nero però è in periferia. La Corte dei conti dice che le società partecipate dai Comuni costano 26 miliardi di euro l’anno.

«Non capisco come si facciano queste stime. Non sappiamo quante sono, figuriamoci se è possibile capire con precisione quanto costano. In ogni caso: è un bosco da disboscare».

E come si fa visto che lo Stato non può intervenire direttamente?

«Il commissario Cottarelli ha iniziato a discutere con i Comuni un programma di ristrutturazione che parte da una operazione di trasparenza sugli obiettivi di quelle società».

Insisto: come convincere i Comuni?

«Noi vogliamo superare il Patto di stabilità interno, che è stupido perché fondato su tetti di spesa e penalizza i Comuni virtuosi. Il nostro obiettivo con la nuova tassa sui servizi è dare ai sindaci una base imponibile che gli permetta di gestire in autonomia i bilanci. Ma per superare il Patto ci vuole la collaborazione dei sindaci, ad esempio riducendo i costi. In Emilia molti Comuni si sono fusi, e ora non sono più sottoposti alle regole del Patto».

Lei propone uno scambio: risparmi in cambio di maggiore autonomia di spesa.

«Lo chiami come crede».

Sulle privatizzazioni siete in ritardo.

«Sì, anche se io penso che occorra lavorare sulla qualità oltre che sulla quantità delle cessioni. Poste deve diventare una public company, introducendo un limite alla percentuale di controllo come si è fatto con France Telecom».

Le public company hanno pregi e difetti. Perché sì?

«Aiuterebbe a garantire la vocazione pubblica di Poste. Perché attrarrebbe il risparmio degli italiani a caccia di rendimenti più alti di quelli per fortuna bassi di Bot e Cct. Perché Poste dalla privatizzazione deve uscire più forte, non più debole. Il mito del nocciolo duro in passato ha creato le condizioni per operazioni che invece di rafforzare la società l’hanno indebolita e indebitata, come è successo a Telecom».

Nel 2015 scenderete sotto il 30 per cento di Eni, Enel, Terna?

«Non bisogna avere chiusure in questo senso. In contesti regolati la golden share non è una bestemmia e può essere introdotta con modalità compatibili alla legislazione europea».